Gramsci è uno dei pensatori più importanti che, con le sue idee, ha influenzato profondamente la politica mondiale nel nostro secolo. È quasi impossibile elaborare un pensiero politico senza tenere conto del concetto di “egemonia culturale”. Le idee di Gramsci suscitano un ampio interesse che supera le divisioni tra destra e sinistra, coinvolgendo ambienti diversi. Abbiamo parlato dell’eredità intellettuale di Gramsci con Francesco Giasi, Segretario Generale della Fondazione Gramsci.
Può parlarci della missione e delle attività recenti della Fondazione Gramsci? Qual è il ruolo della Fondazione nel preservare e reinterpretare l’eredità intellettuale di Gramsci nel mondo contemporaneo?

La Fondazione Gramsci è un istituto di cultura e di ricerca e un luogo di conservazione e di studio di fonti sulla storia politica e culturale italiana del Novecento. È nata nel 1950 per valorizzare l’eredità intellettuale di Antonio Gramsci e per promuovere ricerche sulla storia del movimento operaio. Conserva i “Quaderni del carcere” di Gramsci, l’archivio storico del Partito comunista italiano e le carte dei suoi principali dirigenti. Nel corso degli anni ha acquisito i documenti di altre organizzazioni della sinistra italiana e numerosi archivi personali di esponenti della politica e della cultura. Gli oltre 200 archivi raccolti in misura crescente nell’ultimo decennio sono a disposizione degli studiosi insieme a una biblioteca di circa 220 mila volumi. La valorizzazione del patrimonio archivistico e librario – considerato di “interesse storico” dal Ministero della cultura – impone continue attività finalizzate alla tutela e alla accessibilità: catalogazione, inventariazione, digitalizzazione e pubblicazione attraverso strumenti di ricerca. La pubblicazione online di documenti, di giornali, di riviste e di libri agevolerà sempre più le ricerche degli studiosi residenti in ogni parte del mondo. L’intero archivio di Gramsci, con le tremila pagine dei “Quaderni del carcere”, è oggi accessibile a tutti. Tra gli strumenti di ricerca utili allo studio della ricezione internazionale del pensiero di Gramsci segnalo la Bibliografia gramsciana dal 1922, una banca data con più di 23 mila titoli apparsi in oltre quaranta lingue. Il programma di digitalizzazione e pubblicazione è molto ambizioso e ha già reso disponibile sul web un considerevole numero di edizioni integrali di riviste (a partire dai giornali fondati e diretti da Gramsci), di interi archivi personali, di fotografie, manifesti, volantini, opuscoli e di documenti conservati unicamente presso il nostro archivio. Le attività di valorizzazione delle fonti, di ricerca e divulgazione storica sono spesso realizzate in collaborazione con università e istituti culturali attraverso accordi specifici e progetti condivisi. Ciò riguarda la realizzazione di portali culturali e siti web, convegni di carattere nazionale e internazionale, mostre documentarie, ma anche le più ordinarie discussioni pubbliche su storia e politica. Tra i progetti più significativi volti alla conoscenza del pensiero di Gramsci – senza indicare le specifiche attività convegnistiche, le conferenze, le mostre, la pubblicazione di ricerche per lo più collettive – mi limito a segnalare l’edizione integrale e critica dei suoi scritti: una grande impresa editoriale che coinvolge decine di studiosi provenienti da vari ambiti disciplinari.
Cosa intendeva Antonio Gramsci con il concetto di “egemonia culturale”?A Suo avviso, la produzione culturale oggi è ancora sotto il controllo della classe dominante oppure si intravedono crepe in questa egemonia?
Il concetto di “egemonia culturale” viene spesso frainteso. Per Gramsci “egemonia” è innanzitutto sinonimo di direzione politica. Si è egemoni se si è in grado di dirigere un movimento politico, un insieme di forze sociali, cioè se si è capaci di conquistare il potere e di conservarlo con il consenso. Esiste perciò una permanente lotta per l’egemonia. La locuzione “egemonia culturale” ricorre poche volte nei “Quaderni del carcere”, dove il concetto di “egemonia” è onnipresente e investe ogni aspetto della lotta politica. La lotta per l’egemonia è lotta che riguarda i bisogni e gli interessi ed è combattuta da soggetti che hanno una determinata coscienza politica, che sono mossi da sentimenti e da aspettative, che aderiscono a un programma di trasformazione o di conservazione. La lotta politica ha sempre a che fare con l’ideologia. Le considerazioni sulla “fine delle ideologie” e la svalutazione di ciò che viene definito ideologico sono dovute a vulgate giornalistiche che non hanno alcun fondamento; si tratta di “stupidaggini” concepite verso la fine del XX secolo con l’obiettivo di squalificare gli ideali e i valori promossi dal movimento socialista a partire dalla seconda metà del XIX secolo. Un soggetto privo di ideologia sarebbe privo di pensiero, di coscienza, di certezze (e di dubbi), di moralità, di paure e di speranze. Gramsci ha dedicato attenzione ai fattori che concorrono alla formazione della coscienza individuale e dello spirito pubblico; il suo programma di ricerca è del tutto coerente rispetto alla critica del determinismo economico e alla necessità di comprendere pienamente il ruolo della soggettività nella storia. Egli propone un “ritorno a Marx”, al suo umanesimo e al suo storicismo, confutando i marxismi che hanno trascurato la soggettività. Considera Lenin l’unico interprete di Marx consapevole dell’importanza della praxis e della volontà, non affetto da visioni economicistiche e meccanicistiche. Lo stesso termine egemonia è preso, per altro, dal lessico di Lenin. Per Gramsci, la lotta politica non è un automatico riflesso della “base economica” e vi è sempre reciprocità tra “struttura” e “sovrastruttura”, per ricorrere alla coppia concettuale usata dai marxisti. La ricerca di Gramsci si concentra perciò sull’insieme dei soggetti in grado di produrre cultura e sapere, visioni del mondo, sistemi di certezze e di valori, di incidere sulla sensibilità e sul gusto: scuola, università, giornali e riviste, case editrici, teatri, istituti culturali, accademie di scienze e di arti e, ovviamente, organizzazioni religiose e politiche che producono miti e senso comune con uno sguardo volto permanentemente alla lotta per l’egemonia.
Il controllo della totalità della produzione culturale è inattuabile. Nessuno Stato e nessuna “classe dominante” ne ha mai avuto il monopolio. Quando si hanno simili pretese le crepe sono da subito ben evidenti e tendono ad allargarsi. Oggi si assiste al rapido e inaudito potenziamento dei nuovi media, mentre la televisione e i giornali continuano ad avere un ruolo non trascurabile. Imperano agenzie che diffondono idee vecchie e nuove della “classe dominante” e singoli o gruppi più o meno influenti che hanno acquisito in vari modi prestigio e credibilità sia a destra sia a sinistra. Le organizzazioni politiche democratiche, invece, sono in difficoltà, tanto deboli da rivelarsi incapaci di affermare verità e valori, di agitare e di organizzare, di orientare e stabilizzare opinioni e sentimenti.
Alla luce dell’ascesa globale dei governi populisti, del controllo crescente dei monopoli mediatici sull’informazione e del trasferimento dei movimenti sociali verso le piattaforme digitali, come dovremmo ripensare i concetti gramsciani di “egemonia culturale” e di “guerra di posizione”?
Gli argomenti trattati da Gramsci, i temi da lui maggiormente sviluppati e molte delle domande che troviamo formulate nei suoi scritti conservano una sorprendente attualità. Gramsci ha conosciuto un mondo profondamente diverso dal nostro, ha pensato e ha agito in un’epoca in cui neppure la fotografia, la radio e il cinema avevano manifestato in modo evidente le loro potenzialità. È stato un dirigente politico, morto nella seconda metà degli anni Trenta – dopo aver vissuto per oltre dieci anni in prigione – e occorre storicizzare il suo pensiero senza ricorrere a forzature e senza pretendere risposte a domande che egli non ha potuto neppure formulare. È fuori discussione la ricchezza e la profondità del suo pensiero, maturato nel vivo della feroce lotta politica combattuta in Italia dall’inizio della Grande guerra all’instaurazione della dittatura fascista. Tuttavia, c’è da chiedersi come mai cresce l’attenzione verso le sue analisi sulla funzione degli intellettuali pur di fronte a mezzi e forme di produzione e di comunicazione del tutto nuovi e impensabili nel suo tempo. Perché il suo pensiero a proposito di politica e cultura ci appare così vivo? A mio giudizio, conta l’attenzione da lui prestata alle ideologie e alla coscienza collettiva, ai fattori che determinano sentimenti politici e condotta pubblica. Certo è che i media odierni sarebbero stati oggetto delle sue indagini insieme a tutti i fattori che concorrono alla formazione della coscienza. Tocca a noi essere all’altezza delle indagini da lui compiute ben valutando la potenza e la diffusione dei nuovi media.
Il termine “egemonia” non è destinato a scomparire dal lessico politico e la distinzione tra “guerra di movimento” e guerra di posizione” è ancora utile. Gramsci precisa in più occasioni che le categorie della politica non possono essere attinte di sana pianta dall’arte militare, ma considera questa distinzione tra i due tipi di guerra indispensabile per capire il modo di fronteggiarsi e di combattersi nel campo politico. Nella lotta democratica e nelle dittature i partiti e i movimenti si fronteggiano permanentemente e i problemi della cultura, della formazione delle opinioni, dei giudizi e dei sentimenti morali assumono una rilevanza che non può essere trascurata.
Gramsci sottolineava che l’egemonia si mantiene attraverso la produzione del consenso. Perché, secondo Lei, oggi ampie fasce della società continuano a sostenere sistemi che forse non rispondono realmente ai loro interessi?
I partiti che dovrebbero candidarsi a rappresentare gli interessi delle classi popolari si rivelano incapaci di comprendere le aspettative e i bisogni più elementari di chi soffre a causa della povertà, delle diseguaglianze e dell’esclusione sociale. Si tratta di questioni per nulla nuove, generate dalla disoccupazione, dalla discontinuità lavorativa, dai bassi salari, dalla mancanza di tutele. Le domande riguardano la casa, la salute, l’assistenza, l’istruzione, l’innalzamento del tenore di vita. Il movimento socialista lottò per unificare il genere umano; giunse a conquiste che garantirono maggiore dignità e benessere alle classi popolari costituite in larga parte da contadini e da operai; promosse un’emancipazione che mirava a rendere le classi subalterne capaci di sostituire i dirigenti espressi dalle classi dominanti; diede risposte ai bisogni e alimentò le speranze. I partiti progressisti non hanno oggi la capacità di riaffermare i valori costitutivi della tradizione democratica e socialista: uguaglianza, solidarietà, cooperazione, emancipazione, giustizia sociale, cioè tutti quei valori in grado di contrastare le culture che alimentano i nazionalismi, il razzismo, la volontà di dominio di classi e di caste. Gramsci parla di “connessione sentimentale” con il popolo e credo che questa assenza di sintonia sia alla base delle sconfitte dei partiti democratici peraltro privi di legami internazionali e di una visione globale dei problemi del nostro tempo. Credo che soltanto la rigenerazione (la rinascita) di forze politiche in grado di proporre una visione universale degli interessi delle classi popolari e di attuare programmi coerenti e chiari possano arginare le destre nazionaliste e xenofobe che danno forza e legittimità a egoismi e particolarismi in ogni parte del mondo.
Gramsci distingue tra intellettuali “organici” e “tradizionali”. Quanto è ancora rilevante questa distinzione oggi? Gli influencer sui social media, gli intellettuali pubblici o gli operatori culturali possono essere considerati intellettuali organici? Qual è invece il ruolo degli intellettuali tradizionali nel mantenere o trasformare le strutture dominanti?
A questo proposito il testo più illuminante di Gramsci è a mio giudizio il saggio sulla questione meridionale, suo ultimo scritto prima dell’arresto avvenuto nel novembre 1926, pubblicato per la prima volta nel 1930 dai suoi compagni in esilio. In questo saggio Gramsci chiarisce qual è la funzione esercitata dalle varie categorie di intellettuali “tradizionali”, spiega quali sono i legami che li rendono influenti tra le classi popolari e argomenta in che modo sono capaci di determinarne la passività o l’ostilità ai mutamenti politici e sociali. Di fronte alla irrisolta “questione meridionale” – dovuta al divario economico tra Nord e Sud, accentuatosi dopo l’Unità d’Italia – Gramsci mostra le differenze tra un cinquantennale dibattito confinato in un ambito esclusivamente intellettuale e la novità rappresentata da un partito politico interessato a fondere riflessione intellettuale e azione politica con l’obiettivo di rendere le classi popolari il soggetto protagonista del cambiamento. In sintesi, senza il legame con un movimento politico gli intellettuali svolgono sempre una funzione più o meno tradizionale. L’intellettuale è organico a una classe sociale e quindi anche l’aristocrazia e la borghesia hanno i loro intellettuali organici: dal suo punto di vista, si è sempre organici a classi sociali che lottano per la trasformazione o la conservazione. Gramsci non ha mai sottovalutato l’importanza dei singoli intellettuali, ma ha mostrato come la loro funzione progressiva o regressiva derivi necessariamente dall’adesione a correnti ideali e politiche. In ogni caso, soltanto un movimento politico può attribuire alle classi popolari la forza per compiere azioni progressive seguendo un programma. Allo stesso tempo, se l’intellettuale non aderisce a un movimento ideale e politico non può svolgere in modo coerente e continuativo una funzione politicamente positiva.
Perché Gramsci introduce il concetto di “Principe moderno”? In che modo si ispira a Machiavelli e in cosa se ne distacca nel formulare questa idea?
Il moderno principe è per Gramsci il soggetto collettivo sinonimo di partito politico. La differenza fondamentale tra la politica del tempo di Machiavelli e la nostra (sia quella di Gramsci sia la odierna) consiste nel fatto che le funzioni di direzione politica non sono attribuibili a una persona, non sono prerogativa di un individuo. Nella nostra epoca, il partito politico è il soggetto che si candida a governare. Nei suoi studi su Machiavelli, Gramsci lo colloca innanzitutto nel suo tempo. Non ammette che lo si consideri “buono per tutti i tempi”. Lo ritiene un teorico e un politico che va studiato nel contesto dell’Italia e dell’Europa a cavallo del XV e XVI secolo. Nel corso del primo anno di prigionia, nel 1927, aveva avuto modo di leggere la maggior parte dei contributi apparsi in occasione del quarto centenario della morte di Machiavelli. Ottenuto il permesso di scrivere, nel gennaio 1929, li schedò e commentò, avviando una riflessione sia sulle opere di Machiavelli sia sulla sua eredità. Machiavelli critica le utopie e – scrive Gramsci – “getta le basi della politica moderna” considerando la lotta politica in “termini di realismo”. Per Gramsci egli è il più radicale critico delle azioni velleitarie e dei “vaneggiamenti”. Il politico deve saper connettere il mezzo con il fine ed evitare di confondere le utopie e i sogni con la realtà. In più, Gramsci attribuisce a Machiavelli una concezione della storia del tutto emancipata dalla religione e perciò assimilabile alla “filosofia della praxis” e al “neo-umanesimo” di Marx. In assenza di forze trascendenti, senza che Dio possa ispirare e salvare (e punire), il destino dell’uomo è nelle sue stesse mani. La politica assume una rilevanza inaudita se si ritiene che non vi sia intervento divino nelle faccende umane: è chiamata ad affrontare e a risolvere ogni questione pubblica, ogni problema di carattere sociale. Machiavelli è quindi l’autore che dà nuove basi alla politica come scienza e come azione, sia umanizzandola sia connettendola a obiettivi concreti a cui conformare i mezzi.
Nei confronti di Gramsci conviene rifarsi ai criteri da lui adottati per la biografia e gli scritti di Machiavelli: va considerato un pensatore e un uomo di azione che appartiene al suo tempo, ma in grado di offrirci idee e categorie storico-politiche per noi ancora utili e feconde.