Gianluca Giannini: Carl Schmitt è stato un autentico rivoluzionar-conservatore

L’articolo di Gianluca Giannini in Ripensare Carl Schmitt tra i materiali della Rivoluzione Conservatrice, Materiali di O.M. Gnerre ha attirato la mia attenzione in questo contesto. Carl Schmitt e le sue idee sono ancora oggi oggetto di dibattito. Questo aspetto di Schmitt come rivoluzionario conservatore è spesso trascurato nelle discussioni su di lui.

Oggi, quando si parla di “rivoluzionarismo conservatore”, non si riesce a conciliare questi due concetti. Che cos’è il rivoluzionarismo conservatore?

Innanzitutto, quando parliamo di ‘rivoluzionarismo conservatore’ dobbiamo intenderci su di un considerevole insieme di cose, prima tra tutte ‘il contesto storico’, altrimenti corriamo il rischio di riferirci a categorie fuori dallo spazio e dal tempo e perciò ragioniamo di concetti astratti. La Rivoluzione Conservatrice rappresenta un fenomeno complesso e poliedrico che si è sviluppato principalmente in Germania durante la Repubblica di Weimar (1919-1933). ‘Rivoluzionarismo conservatore’ si riferisce perciò a un insieme eterogeneo di movimenti culturali, politici e intellettuali che, pur condividendo una critica radicale alla modernità e ai suoi valori, si distinsero per una varietà non sempre unitaria di approcci e obiettivi sociopolitici. La Rivoluzione Conservatrice, dunque, non ha costituito in alcun modo un movimento politico organico, bensì un insieme di correnti culturali che hanno cercato di coniugare elementi tradizionali con istanze di rinnovamento, dando origine a un pensiero che è stato definito finanche “modernismo antimoderno”.

Come sappiamo, la Germania della Repubblica di Weimar era caratterizzata da un periodo di grande instabilità politica, finanziaria e sociale. La sconfitta nella Prima Guerra Mondiale, il Trattato di Versailles e le conseguenti difficoltà socioeconomiche alimentavano un clima di frustrazione e di ricerca di alternative radicali. In questo scenario, la Rivoluzione Conservatrice emerse come una risposta critica al liberalismo, al socialismo e al razionalismo illuminista, ritenuti responsabili della crisi della civiltà occidentale nel suo insieme.

Solo a partire da questi dati minimali di contesto possiamo chiederci cosa sia stata la Rivoluzione Conservatrice. E ciò mi porta subito a considerare che della Rivoluzione Conservatrice ancora poco si sa e, si potrebbe aggiungere, oramai non solo fuori della Germania ma, appunto, nel suo stesso luogo d’origine.

Ma, meglio ancora: della Rivoluzione Conservatrice, quel che si presume sapere sovente è il portato di schemi interpretativi estremamente riduttivi e semplificativi; altrimenti, e non di rado, è il precipitato di istanze riflessive che, al fine, riconducono a esigenze teoriche di turno e, dunque, a rigidi apriori, un complesso articolato che, di per sé, è incomprimibile e perciò irriducibile proprio per i motivi a cui si faceva cenno prima.

È indispensabile, perciò, ripensarne tutto il pluriverso nella sua effettiva, originale e autentica complessità. E ciò non solo per venire a capo di un problema squisitamente storiografico e, risolverlo, in maniera presuntuosa, una volta e per tutte, bensì, e anche, per provare a seguirne traccianti che, verosimilmente, potrebbero tutt’ora esser fecondi e produttivi, sebbene in uno scenario spazio-temporale, in una situazione storico-politica, totalmente altra rispetto al periodo circoscritto in apertura.

La cosiddetta Rivoluzione Conservatrice tedesca rimane un fenomeno difficile da definire in modo chiaro e univoco, così come da comprendere pienamente. Questa difficoltà deriva anche dall’oscuramento a cui è stato spesso condannato il suo pensiero, frequentemente associato a fenomeni politici contemporanei o immediatamente successivi, come il nazionalsocialismo. Sebbene alcuni dei suoi autori abbiano ispirato, in parte, certe formulazioni ideologiche del Terzo Reich, sarebbe riduttivo sovrapporre semplicisticamente i due movimenti.

Molti esponenti della Rivoluzione Conservatrice intrattennero rapporti conflittuali, se non apertamente ostili, con le alte sfere del potere nazionalsocialista, criticandone sia la pratica politica sia le fondamenta teoriche. Nonostante ciò, il legame tra i due fenomeni appare ambiguo: se da un lato alcune idee rivoluzionario-conservatrici influenzarono elementi della burocrazia del Terzo Reich, dall’altro è altrettanto vero che tra i rappresentanti della Rivoluzione Conservatrice si annoveravano anche decisi oppositori del nazionalsocialismo. Questi includevano figure dalle posizioni politiche più disparate, come i nazionalbolscevichi o addirittura sostenitori dell’Unione Sovietica.

Diventa quindi essenziale riscoprire la reale natura di questo movimento di pensiero. Approfondirne i contenuti potrebbe non solo chiarire i complessi rapporti politici e culturali della Germania in quel periodo, ma anche fornire una prospettiva completamente nuova su un fenomeno spesso frainteso. Solo in questo modo può risultare comprensibile un accostamento tra due termini (rivoluzione e conservazione) che da punto di vista logico sono l’uno il contro reciproco dell’altro. Cosa che, ancora oggi, provoca imbarazzi nel coniugarli sincronicamente.

Carl Schmitt occupa un posto speciale tra i rivoluzionari conservatori e le tradizioni intellettuali sia di destra che di sinistra. Le idee da lui proposte hanno influenzato sia la destra che la sinistra. Cosa ha reso Schmitt diverso?

Avvicinarsi al pensiero di Carl Schmitt, soprattutto in relazione alla Rivoluzione Conservatrice, può portare facilmente a interpretazioni errate. In breve, il nucleo fondamentale del suo pensiero risiede nel legame stretto tra vita, storia e riflessione. La sua elaborazione teorica si è sviluppata in relazione al particolare contesto storico ed esistenziale in cui è vissuto, soggetto a trasformazioni rapide e finanche violente, dando origine a contributi inediti e significativi all’interno della Rivoluzione Conservatrice.

Questi contributi, incentrati su questioni giuridiche, politiche e filosofiche, hanno influenzato profondamente la forma di questa corrente, evidentemente senza esaurirne l’essenza distintiva. Per comprendere pienamente la specificità delle prospettive schmittiane in seno al complesso rivoluzionar-conservatore, sarebbe necessario esaminare in dettaglio alcune delle sue teorie chiave, seguendolo in diversi passaggi fondamentali a cavallo tra la fine degli anni ‘20, gli anni ‘30 e ‘ 40 del secolo scorso.

Per quanto riguarda l’uso del suo pensiero da parte di destra e sinistra, specialmente nel secondo dopoguerra, ritengo opportuno evitare commenti approfonditi: spesso, chi approccia autori così complessi in modo superficiale finisce per trarre conclusioni contraddittorie. Nel cosiddetto “Atelier Carl Schmitt”, molti hanno attinto come se fosse un negozio di idee a basso costo, specialmente tra gli anni ‘70 e ‘80 del XX secolo, producendo interpretazioni distorte e poco rigorose sulle quali sarebbe meglio calare un velo pietoso.

E allora, in che modo le teorie di Schmitt sulle relazioni tra “diritto”, “Stato” e “politica” hanno contribuito al quadro teorico della Rivoluzione Conservatrice? 

Carl Schmitt è stato un autentico rivoluzionar-conservatore e questo è un dato, a mio avviso e come dicevo, rintracciabile in molti luoghi speculativi ma, anche e soprattutto, in quelle che sono state le modalità del suo rapporto, della sua aderenza-adesione peculiare al Nazionalsocialismo.

Su uno di questi nodi speculativi in particolare, cifra di tale innegabile radice e profondità rivoluzionar-conservatrice, vorrei soffermare brevemente l’attenzione, ed è quello relativo all’interpretazione data dallo stesso Schmitt dell’esperienza fascista italiana e, conseguentemente, sul come essa abbia interagito con il suo disegno in relazione al Nazionalsocialismo.

Da questo luogo teorico specifico che isolo per motivi di sintesi, infatti, ho l’impressione che si possa venire a capo di alcuni elementi relativi al filosofo-giurista di Plettenberg, elementi che si possono volgere non tanto in direzione della sua eventuale incomprensione del Nazionalsocialismo, anche perché alcune significative e decisive pagine in special guisa di Stato, movimento, popolo stanno lì a dimostrare nitidamente giusto il contrario, quanto piuttosto verso la cognizione di una sorta di “pretesa”: la “pretesa” di plasmare lo stesso progetto nazionalsocialista su di un disegno appunto, un modello rivoluzionar-conservatore, molto più vicino e rispondente, con tutti i suoi limiti, proprio alla realtà politica italiana, che non con quella approntata nel Mein Kampf da Hitler e poi, di fatto e finanche nei minimi dettagli, realizzata.

C’è uno scritto schmittiano dal quale conviene sicuramente partire per entrare, senza ulteriori giri, in medias res. Si tratta di Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus del 1923 (riedito poi nel 1926, in seguito alla polemica recensione di Richard Thoma), in cui è Schmitt stesso – da una prospettiva, mi sentirei di dire, pienamente in sintonia con la galassia rivoluzionar-conservatrice – ad aprire alla problematica laddove ha sostenuto che l’interesse scientifico della sua ricerca è quello di tentare di cogliere il nocciolo ultimo dell’istituzione del moderno Parlamento, in tal modo mostrando quanto poco la base sistematica, da cui era scaturito, si sia sentita mancare il terreno dal punto di vista morale e spirituale conservandosi solo in forza di una persistenza meramente meccanica come un vuoto apparato. La sua convinzione era che soltanto a partire dall’assunzione della situazione di disfacimento di quell’orizzonte si sarebbe potuto aprire (come in Italia) un autentico campo di azione per delle proposte di riforma per le unità politiche in disgregazione come quella tedesca.

Supportato da un’acuta lettura della dottrina del mito soreliana, Schmitt ha ritenuto non solo che il mito più forte fosse quello della nazione, ma anche che proprio Benito Mussolini sia stato l’uomo politico in grado di dimostrarne, in modo clamoroso, la forza dirompente, spazzando via democrazia e parlamentarismo. Anzi, di più, riducendo il socialismo a mitologia di rango inferiore, Mussolini è stato in grado di esprimere, nuovamente, il principio della realtà politica.

Già da questo piccolo scritto emerge con sufficiente chiarezza che per Schmitt non è si è trattato semplicemente di un problema di mero nazionalismo, cosa che, per inciso, lo avrebbe visto rifluire su posizioni conservatrici classiche improntate, appunto, a un marcato ‘primato della nazione’, tedesca nella fattispecie. Erano in gioco, da un lato, la teoria del mito quale esperienza più forte del fatto che il nazionalismo relativo del pensiero parlamentare ha perso la sua evidenza, dall’altro proprio il fatto dell’espressione del principio della politica che, ed è qui il nucleo dell’istanza rivoluzionar-conservatrice che intesse di sé la prospettiva schmittiana, può contribuire al rinnovamento dello Stato, ovvero al rilancio dei motivi esistenziali fondanti un’unità politica nella sua specificità ed essenzialità.

E il rinnovamento dello Stato per Schmitt, già dalla Teologia politica del 1922, deve poggiare su un’accezione e concezione della sovranità quale monopolio della decisione ultima, la decisione ‘sullo’ e ‘nello’ stato d’eccezione, ovvero su ciò che, attimo per attimo, può metter in discussione l’esistenza concreta di un’unità politica.

Il fascismo, in altri termini, che a Schmitt interessa non come movimento politico e sociale, ma solo per la sua funzione all’interno dello Stato, perseguendo il tentativo, quasi eroico, di mantenere e affermare la dignità dello Stato e dell’unità nazionale contro il pluralismo degli interessi economici quale reazione contro le astratte spoliticizzazioni, contro il pericolo di una completa privatizzazione di tutto ciò che è attinente alla sfera dello Stato e del Politico, ripristinando la supremazia dello Stato nei confronti dell’economia, ha agito in direzione del rinnovamento dello Stato stesso – tant’è che con buon motivo conferisce valore all’essere rivoluzionari –, in quanto gli ha restituito l’autentica possibilità di tornare a essere di nuovo Stato, ovvero ormai una buona volta l’unità politica del popolo.

Ritengo che qui Schmitt abbia contribuito in maniera acuta e profonda alla complessa trama del fenomeno ‘Rivoluzione Conservatrice’. Elaborando questa nuova forma di conservatorismo, Schmitt non ha mai creduto che potesse cambiare qualcosa di essenziale, quanto piuttosto che, in un movimento rivoluzionario, differente radicalmente dall’impostazione del pensiero progressista, quale stadio transitorio atto ad accelerare il di per sé lento “processo evolutivo”, si potesse davvero e finalmente recidere con decisione le escrescenze che possono inibire la vita di una dimensione di vivere associato quale autentica unità politica.

All’inizio – per quanto per poco – ha voluto riconoscere questa istanza vitale nella prassi decisionale del Movimento/Partito Nazionalsocialista.

Nel contesto della Rivoluzione Conservatrice, in che modo la filosofia dell’essere di Heidegger, la critica della modernità di Jünger e la teoria politica di Schmitt formano un’unità?

Non credo affatto che formino un’unità e proprio per quegli elementi che mettevo in evidenza prima. Può risultare interessante come, in un testo non proprio recentissimo e, tuttavia, non tanto conosciuto in ragione di una limitata circolazione, e cioè Heidegger e la rivoluzione conservatrice, Ernst Nolte ha tracciato e definito i parametri per catalogare sotto la dicitura di Rivoluzione Conservatrice alcune tendenze del pensiero di destra tedesco nei primi due decenni del XX secolo: “già prima del 1914 erano riconoscibili tre fondamentali segni distintivi di un conservatorismo nuovo e rivoluzionario, ancorché solo a carattere tendenziale e ristretto a gruppi minoritari: 1) un deciso antimarxismo, che cercava di appropriarsi di concetti e impostazioni marxiste; 2) una radicale critica della civilizzazione, che metteva in discussione non solo il liberalismo ma anche il vecchio conservatorismo; 3) un bellicismo che nelle aspirazioni della ‘pace universale’ vedeva un attentato all’esistenza degli Stati e un condizionamento della grandezza umana e dello spirito di sacrificio dell’uomo” (Ernst Nolte, Heidegger e la rivoluzione conservatrice, Milano, Sugarco Edizioni, 1997, p. 30).

Pur nella sua limitatezza, lo schema elaborato da Nolte consente di testare e fare interagire alcuni autori, tra cui proprio Schmitt, ma si potrebbero indicare, su piani molteplici, anche Spengler, Moeller van den Bruck, i fratelli Jünger, Freyer, Niekisch e anche Heidegger. Tutti questi auspicavano una rivoluzione di destra (nel senso proprio di ‘destra hegeliana’), che avrebbe restituito alla politica e allo Stato una supremazia sull’economia e sul mercato. Ovviamente è una esemplificazione, ma mi consente di dire che il vero comun denominatore culturale, ovvero una prima e salda base teorico-speculativa, sia in materia di dottrina dello Stato che in fatto di spinta antiliberale, sia stata, in fatto di riflessione antropologica in senso stretto, quella letteratura controrivoluzionaria che va da Joseph De Maistre a Louis de Bonald, da Antoine de Rivarol a Félicité de Lamennais, sino al capofila Edmund Burke. Tradizione di pensiero a tutto tondo e non, quindi, esclusivamente di segno sociopolitico è bene sottolineare, che ha letteralmente ha formato molti di questi autori tedeschi di fine Ottocento e primo Novecento.

E allora Rivoluzione Conservatrice di cui hanno fatto parte tutti questi ‘cercatori’ che hanno condiviso del nuovo conservatorismo le tre componenti fondamentali o anche solo una di esse e che non sono da annoverarsi né nelle fila dei vecchi partiti tradizionali, né in uno o nell’altro di quei poli divisi da radicale antagonismo e che erano il partito comunista e il partito nazionalsocialista.

In questo scenario, la prospettiva heideggeriana e quella jüngheriana hanno giocato ruoli diversi, con rilevanza dissimile. Il Discorso di Rettorato del 1933 di Heidegger non ha fatto altro che slatentizzare l’impresa totalizzante insita in ogni impresa metafisica: l’essere, così come lo è arrivato a pensare Heidegger, si rivela pòlemos, e non semplicemente come pòlemos; per cui pòlemos è destino del pensiero, destino che è in sé, nel suo disvelarsi anche storico, la coincidenza con forme (politiche) concrete le quali hanno saputo interpretarsi e dunque proporsi come questa volontà d’essenza ovvero, e in ultima istanza, come scatenamento di potenza per portare a compimento in senso proprio ciò che già è. Ovvero l’essere stesso. Come si intuisce, dal punto di vista della ‘prassi politica’, la posizione di Heidegger è stata sostanzialmente inservibile. La sua vicenda, fondata sulla presunzione (filosofica) di poter essere il Führer del Führer, lo dimostra chiaramente.

Per Jünger le cose sono state più complesse e interessanti: lo sforzo del rivoluzionario da lui costruito e idealizzato dev’essere quello di custodire e rilanciare quel valore attivo che si trova agli albori della forma di vita nella quale si trova a esistere e che è stato invece allontanato e/o respinto, qui e ora, per qualche motivo contingente. Il rivoluzionario è, dunque, un conservatore, come ben sapeva Jünger quando ha delineato i tratti della complessa figura di Antoine de Rivarol, il pensatore dell’autentica conservazione in un’epoca di stravolgimenti rivoluzionari: “la parola ‘conservatore’ non appartiene alle creazioni felici. Racchiude un carattere che si riferisce al tempo e vincola la volontà alla restaurazione di forme e condizioni divenute insostenibili. Oggi chi vuole conservare qualcosa è apriori il più debole. Sarà dunque bene cercare di separare la parola dalla tradizione. Si tratta piuttosto di trovare o anche di ritrovare quel che da sempre viene posto e che resterà alla base di un ordine salutare. Ma in questo c’è qualcosa di extratemporale, cui non si giunge né con un regresso né con un progresso. I movimenti vi ruotano attorno. Solo i mezzi e i nomi si modificano. In questo senso si deve concordare con la definizione fornita da Albert Erich Günther, che non intende la conservazione come un ‘restare attaccati a ciò che era ieri ma come un vivere di ciò che sempre vale’. Ma può sempre valere solo qualcosa che si sottrae al tempo. Ciò si fa valere, e in verità in maniera funesta, anche quando non se ne tiene conto” (Ernst Jünger (a cura di), Rivarol, Stuttgart, 1978, trad. it. Rivarol. Massime di un conservatore, Parma, Guanda, 1992, pp. 52-53).

La conservazione è un vivere di ciò che sempre vale; la rivoluzione è, quindi, conservazione. E conservare ciò che sempre vale è, continuativamente, rivoluzionario. Questa prospettiva di Jünger, come tutti sanno, ha sempre affascinato Adolf Hitler.

In che modo le esperienze personali e le formazioni intellettuali di Ernst Jünger e Carl Schmitt si sono intersecate o si sono divaricate intorno a concetti centrali (tecnologia, guerra, sovranità, unità politica, ecc.), soprattutto nella ricerca di un “nuovo ordine politico” dopo la Prima Guerra Mondiale? Inoltre, in quali testi e dibattiti concreti si può vedere chiaramente come la concezione di Jünger del “lavoratore-tipo” (Arbeiter) nell’era tecnologica e la concezione di Schmitt della “sovranità” (Souveränität) e del “politico” (das Politische) si alimentino o si contraddicano a vicenda all’interno del discorso conservatore della rivoluzione?

Per Ernst Jünger, la Prima guerra mondiale ha rappresentato un’esperienza esistenziale e mitica. In opere come Tempeste d’acciaio (In Stahlgewittern), egli ha celebrato la guerra moderna come una forza che plasma il nuovo uomo attraverso il sacrificio, la disciplina e l’eroismo. Jünger ha visto nel combattente e, successivamente, nel ‘lavoratore’ (Der Arbeiter, 1932), l’incarnazione di una nuova figura antropologica capace di dominare l’era tecnologica. In buona sostanza, calchi diversi di un’unica immagini: il conservatore di cui dicevamo prima. Carl Schmitt, pur non essendo direttamente coinvolto nei combattimenti, ha interpretato il conflitto come un catalizzatore della crisi dello Stato liberale e come un banco di prova per la riaffermazione della sovranità. Nel suo Der Begriff des Politischen Schmitt ha identificato il Politico con la capacità di distinguere tra ‘amico’ e ‘nemico’, un concetto che riflette indirettamente l’intensità del conflitto bellico come principio costitutivo della politica.

Entrambi hanno condiviso una critica radicale al liberalismo, percepito come incapace di fornire un ordine stabile e di rispondere alle sfide della modernità. Per Jünger, il liberalismo rappresentava un’epoca ormai superata dalla forza impersonale della tecnica, che richiedeva una nuova figura collettiva capace di adattarsi alle esigenze dell’organizzazione totale. Per Schmitt, come ho accennato in precedenza, il liberalismo aveva fallito nel garantire l’autorità necessaria per mantenere l’unità politica, a causa della sua inclinazione verso il compromesso e il pluralismo. Jünger e Schmitt hanno sicuramente condiviso l’idea che il mondo post-bellico richiedesse un nuovo ordine. Per Jünger, questo ordine si sarebbe dovuto manifestare nell’organizzazione tecnica della società, dove il ‘lavoratore’ sarebbe diventato il fulcro di una nuova forma di autorità collettiva. Per Schmitt, invece, il nuovo ordine doveva fondarsi sulla sovranità, intesa come capacità decisionale ultima, incarnata in un’autorità che si sarebbe dovuta collocare al di sopra delle divisioni interne.

Entrambi hanno riflettuto sulla necessità di un nuovo ordine politico, ma lo hanno fatto partendo da presupposti diversi: Jünger ha proposto una visione collettivistica e tecnologica, in cui il ‘lavoratore’ avrebbe rappresentato l’essenza della modernità. Schmitt, invece, ha sottolineato l’importanza della sovranità e della decisione come strumenti per garantire l’unità politica in un’epoca frammentata.

Come per tutti i rivoluzionar-conservatori, le esperienze personali e le formazioni intellettuali di Jünger e Schmitt si sono sicuramente intrecciate nel tentativo di rispondere alla crisi della modernità post-bellica ma le loro risposte, come ho brevemente provato a dire, hanno registrato punti di divergenza non trascurabili.

Quale fu l’impatto dell’interazione e del dialogo tra Oswald Spengler e Carl Schmitt sulla formazione dell’ideologia della rivoluzione conservatrice, in particolare nel contesto del tema della “fine della storia” e della teoria dello Stato, e quali dibattiti scatenò questo impatto nel più ampio ambiente intellettuale?

Il dialogo tra Spengler e Schmitt, pur non essendo formalizzato in un rapporto stretto, si sviluppò attraverso l’influenza reciproca delle rispettive opere. Entrambi condividevano una critica alla modernità liberale e una visione pessimistica sul futuro dell’Occidente, ma le loro prospettive differivano nei dettagli: Spengler si concentrava sulla decadenza culturale e sulla necessità di un ritorno a una forma di leadership ‘cesarista’, basata su figure carismatiche; Schmitt, invece, analizzava l’esigenza di un ordine politico stabile fondato sull’autorità sovrana, quale risposta alla crisi della democrazia parlamentare.

La complementarità di queste visioni ha sicuramente arricchito il dibattito interno alla Rivoluzione Conservatrice, fornendo una base teorica per una critica unificata al liberalismo, alla democrazia e al socialismo, sebbene non si concretizzasse in un’ideologia coerente e unitaria.

Da questo punto di vista, forse si può scorgere l’influenza che esercitarono: le loro idee contribuirono certamente a consolidare l’opposizione intellettuale al parlamentarismo e alla visione progressista della storia, promuovendo un progetto di rifondazione politica e culturale basato sull’autorità e sull’identità nazionale. La loro concezione antimaterialista e la critica alla società di massa li posizionarono in opposizione al marxismo, pur condividendo con quest’ultimo una diagnosi della crisi della modernità.

Questo tipo ‘interazione’ tra Spengler e Schmitt ha sicuramente rappresentato un nodo centrale per la formazione di alcune concezioni della Rivoluzione Conservatrice, contribuendo a un’elaborazione teorica che non solo ha influenzato il dibattito culturale dell’epoca, ma ha offerto anche spunti per le successive riflessioni sulla crisi della modernità e della democrazia.

Alla luce delle crisi che le democrazie liberali stanno vivendo oggi, il “rivoluzionarismo conservatore” potrà risorgere?

Su questo sarò lapidario: non credo nei ricorsi storici. La storia, la storia dell’uomo, è come nella sentenza di Eraclito: “non ci si bagna mai nello stesso fiume”, ovvero ogni volta le condizioni in cui si determina il margine dell’agire dell’uomo modificano, rendendo gli effetti al più simili ma mai uguali. 

La storia, la storia dell’uomo, non è governata da leggi naturali e necessitanti che possano replicarsi in modo identico nel tempo. Gli eventi storici sono il risultato di una complessa interazione di fattori unici, tra cui contingenze, decisioni individuali, trasformazioni culturali e scoperte tecnologiche. Ogni epoca è plasmata da un intreccio irripetibile di circostanze, rendendo impossibile il ripetersi esatto di un evento o di un fenomeno storico. Sebbene si possano riscontrare alcune analogie tra le crisi economiche del passato e quelle contemporanee, queste somiglianze non dimostrano un ciclo inevitabile, ma piuttosto riflettono l’esistenza di strutture economiche e sociali che, nel loro funzionamento, possono generare effetti omogenei in determinate condizioni. Tuttavia, i contesti in cui tali crisi si verificano sono sempre differenti: le tecnologie disponibili, le istituzioni economiche e politiche e le risposte della società variano profondamente.

L’idea di un ciclo storico uniforme ignora le differenze culturali e geografiche che caratterizzano l’evoluzione delle diverse società umane. Le dinamiche di una civiltà non possono essere applicate universalmente ad altre, poiché i contesti culturali, religiosi e politici sono profondamente diversi. Anche i fenomeni apparentemente globali, come la modernizzazione o la globalizzazione, assumono forme diverse in base alle specificità locali.

I fenomeni politici attuali, dunque, che hanno fatto riemergere il tema in ballo già alla fine della Prima Guerra Mondiale, ovvero la crisi (irreversibile) del pensiero liberale, meritano di essere trattati con approccio e categorie aggiornate, ragion per cui penso proprio che non sia possibile parlare e pensare a un ‘Rivoluzionarismo conservatore’ 4.0….

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