Luigi Iannone è uno dei principali esponenti del pensiero conservatore nel mondo intellettuale italiano. Ha curato e scritto la prefazione del libro di Ernst Nolte La rivoluzione conservatrice, nonché la collana dedicata a Ernst Jünger. Giuseppe Prezzolini, autore di libri su Jünger, Schmitt, Tolkien e Roger Scruton, ha dato un importante contributo al pensiero antimodernista ed è stato insignito nel 2003 del Premio Nazionale della Cultura dal Presidente del Consiglio dei Ministri italiano.
Che cosa significa la “Rivoluzione Conservatrice”? Esistono diversi approcci all’interno della Rivoluzione Conservatrice? Perché in Italia esiste una vasta letteratura su questo argomento? Per quale motivo gli italiani hanno nutrito un interesse particolare per questa questione?
La “Rivoluzione Conservatrice” è, prima di tutto, un ossimoro. Accostare il concetto di rivoluzione — con le sue trasformazioni radicali, le fratture nel tessuto sociale e nei costumi — a quello di conservazione — che implica continuità, ordine, autorità e difesa della tradizione — appare, da un lato, paradossale, dall’altro straordinariamente seducente. Si tratta di un’idea complessa e sfaccettata, che riunisce movimenti culturali e politici sviluppatisi nella Germania del primo dopoguerra che, però hanno fatto fatica a trovare una loro collocabilità politica definitiva. Ma proprio questa natura ambigua, potente e suggestiva ha favorito una diffusione che ha travalicato i confini tedeschi, irradiandosi in tutta Europa. Trovaimo fenomeni simili in ogni paese del nostro continente. Proprio per la sua eterogeneità, il fenomeno è stato però riconosciuto sotto questa denominazione solo retrospettivamente. Fu soltanto negli anni Cinquanta che Armin Mohler tentò di ricondurre a una cornice coerente questo mosaico di orientamenti politici, temi culturali e sensibilità artistiche differenti. Sensibilità che spaziano dal rifiuto della società borghese, espresso da autori come Stefan George ed Ernst Jünger, al tradizionalismo giuridico e politico di Carl Schmitt, centrato sui concetti di sovranità, decisione e ordine, fino all’universo nazional-rivoluzionario, che cercava una sintesi praticabile tra nazionalismo e socialismo. L’interesse — e spesso la consonanza — che si è sviluppato in Italia nei confronti di questo coacervo di posizionamenti dipende dal fatto che, anche nel nostro contesto, si affrontarono le stesse questioni: dal disagio sociale al sentimento nazionale, fino all’idea di una rivoluzione etica in grado di trasformare il carattere stesso del popolo. È anche per questo che la Rivoluzione Conservatrice ha trovato nel nostro paese un’ampia risonanza. In parte, quello che accadde con le riviste toscane del primo Novecento, quelle per intenderci dove confluirono futuristi, nazionalisti, sindacalisti rivoluzionari e artisti e letterati di vario genere, dà il segno di quell’onda frenetica che tutto cercò di coinvolgere. Ma c’è un’altra ragione. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il panorama culturale italiano è stato quasi interamente egemonizzato da riferimenti e paradigmi marxisti. Il fatto che gli autori legati alla Rivoluzione Conservatrice abbiano dedicato le loro riflessioni a temi come il mito, la tecnica, il sacro, l’identità — e che abbiano continuato a farlo con coerenza lungo tutto l’arco della loro vita — li ha resi particolarmente attrattivi per un pubblico ormai saturo di un pensiero dominante che da anni riproponeva le stesse chiavi di lettura e non riusciva a “leggere” la modernità; cosa che paradossalmente riuscivano a fare non pochi di quegli autori vissuti invece all’inizio del Novecento.
In che modo Jünger e Schmitt criticano la modernità? Come si sono influenzati reciprocamente?

Viene affrontata secondo prospettive diverse, ma complementari. E tuttavia, a partire dagli anni Trenta, tra i due si sviluppa un dialogo intenso, nutrito di stima reciproca, che lascia tracce profonde nelle rispettive opere. L’amicizia che li lega si prolunga per tutta la vita, rappresentando una chiave preziosa per comprendere una fase cruciale del loro pensiero, anche se poi sarà anche attraversata da momenti di tensione e silenzi che ne incrineranno la solidità. Essa si rinsalda soprattutto durante gli anni del secondo conflitto mondiale, probabilmente alimentata da una consapevolezza condivisa della tragedia che li coinvolge anche sul piano personale. Schmitt, già isolato e screditato in parte dell’ambiente accademico, aveva comunque accettato incarichi ufficiali dal regime; Jünger, invece, si muoveva in una solitudine sempre più netta, appartata, tanto che la definizione di “emigrazione interna” appare quasi riduttiva nel descrivere la sua condizione, dacché non una banale fuga, ma una vigilante distanza. Il loro è un rapporto che nasce in modo apparentemente ordinario. Nel 1930, Schmitt, allora giovane professore al Politecnico di Berlino, desidera incontrare l’autore di Nelle tempeste d’acciaio. Li unisce un’avversione comune per il parlamentarismo e per una visione decadente dell’intellighenzia europea, l’appartenenza, seppur da angolature differenti, all’orizzonte della Rivoluzione Conservatrice, nonché l’intuizione del radicale mutamento di ciò che Schmitt definirà come “nomos della terra”. Jünger si muove lungo un crinale in cui l’esistenza individuale e la simbologia collettiva si fondono in una critica implacabile alla modernità borghese, razionalista e utilitarista, responsabile — ai suoi occhi — dello svuotamento spirituale dell’uomo e della sua riduzione a ingranaggio impersonale. In lui la figura del “lavoratore”, dell’“eroe tecnico”, rappresenta non solo una nuova antropologia, ma una risposta al nichilismo moderno. Schmitt, invece, sviluppa una riflessione fondata sul piano giuridico-politico e teologico. La sua accusa alla modernità si concentra sulla tendenza a neutralizzare ogni forma di conflitto, dissolvendo il politico nelle maglie del proceduralismo, del parlamentarismo e del compromesso privo di decisione. Con sguardo lucido, egli anticipa la crisi della sovranità e il declino delle democrazie liberali, in cui il potere si svuota di autorità reale e si frammenta in un gioco sterile di forme senza sostanza. Divergono nei toni e nei registri narrativi, però entrambi convergono nella diagnosi di una modernità malata.
Alcuni pensatori trasformano la tecnologia in un feticcio, mentre altri tendono a rifiutarla del tutto. Perché la questione tecnologica era così importante sia per Jünger sia per Heidegger? Qual è il rapporto tra tecnologia e cultura?
Per Jünger e Heidegger, la tecnologia non è un semplice strumento, ma cifra del tempo e forma del destino. Nel primo, essa incarna una forza impersonale che forgia nuove figure umane, come il Lavoratore, simbolo di disciplina e dominio. Heidegger, in modo ancora più radicale, ne svela l’essenza metafisica. Per entrambi, la questione della tecnica è centrale, poiché investe la struttura profonda dell’uomo moderno. Proprio per questo, il rapporto con la cultura non è affatto secondario: la tecnica la trasforma radicalmente, fino a sottometterla, rendendola sua ancella.
Come definì Ernst Nolte il fascismo? Perché interpretò la Prima e la Seconda Guerra Mondiale come una sorta di guerra civile europea?
Nolte attribuisce un ruolo centrale all’elemento della reazione antibolscevica, interpretando la genesi del fascismo — e di altri fenomeni affini — come risposta all’ascesa del comunismo successiva alla Rivoluzione russa. Nella sua prospettiva, il fascismo non va inteso soltanto come manifestazione di violenza o forma di totalitarismo fine a sé stessa, ma come contro-movimento ideologico e politico, nato dall’allarme suscitato dalla minaccia rivoluzionaria. Pur non esaurendosi in questa lettura, essa rappresenta però una delle chiavi fondamentali della sua analisi. La Prima e la Seconda Guerra Mondiale sono perciò da lui concepite come fasi di una più ampia guerra civile europea, un conflitto interno all’Occidente, in cui si confrontano visioni del mondo come quella liberale, comunista e fascista. Inquadrate in questa logica, le guerre non rappresentano più solo semplici scontri tra Stati, ma tragedie ideologiche, espressione della crisi della civiltà borghese e dell’Europa.
In che modo il Signore degli Anelli è diventato un mito nel mondo moderno e ha influenzato la ricerca di una leadership contemporanea? È possibile stabilire un legame tra la visione di Tolkien e il pensiero conservatore inglese?

Sembrerà forse banale e quasi pleonastico, ma è fondamentale sottolineare che Tolkien possedeva una preparazione intellettuale di altissimo livello e una solida formazione accademica, con un particolare focus sullo studio delle lingue e delle letterature antiche. Fu proprio grazie a queste competenze che riuscì a creare un mondo secondario, un universo immaginario che gli permise di riscoprire e trasmettere i valori nei quali credeva con profonda convinzione, senza mai dover immaginare una via d’uscita di carattere politico per concretizzare quelle visioni. La sua opera non ebbe mai la pretesa di un riscatto sociale o di una rivalsa nel dibattito pubblico contemporaneo, né Tolkien nutriva intenzioni di tale natura. Tuttavia, per lungo tempo fu oggetto di una critica militante che cercò di emarginarlo, riducendo la sua produzione a schemi limitati, offuscata da un disprezzo preconcetto, e spesso letta proprio attraverso il filtro del dibattito politico. I pregiudizi verso i suoi sostenitori, orientati in gran parte verso un anti-progressismo radicale, distorsero la sua immagine e i suoi racconti. Tuttavia, una lettura più attenta smonta facilmente queste false interpretazioni, permettendo di far emergere la ricchezza della sua opera. Nonostante l’immersione nel fantastico, Tolkien costruì un universo cosmogonico innanzitutto per forgiare una mitologia per l’Inghilterra, lontano da forzature politiche e retoriche. Pur essendo stato emarginato, la sua opera trovò certamente ampio respiro negli anni Sessanta, diventando un punto di riferimento anche per pacifisti, hippie e giovani universitari americani, grazie alla sua capacità di trasmettere valori lontani da quelli di un Occidente dove l’incipiente consumismo iniziava a dilagare anche come teoria e prassi dell’agire di ogni singolo cittadino. Ma, nel corso del tempo, e oltre queste momentanee ubriacature da parte di movimenti antagonisti e giovanili, la sua critica alla modernità, il legame con la spiritualità e la Tradizione emergono costantemente nelle sue opere. Pur essendo talvolta divenuto un simbolo per movimenti di protesta, Tolkien rimase fermamente antimoderno, capace di insegnare a intere generazioni ad apprezzare il Medioevo e la letteratura fantastica, rifiutando di considerarli negativi o pericolosi. Ma, ripeto, al di là delle mode politiche, egli ci ricorda che determinati valori sono eterni e le correlative interpretazioni contingenti passano.